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La Calandria
Bernardo‏ Dovizi




Bernardo Dovizi da Bibbiena

La Calandria / Commedie del Cinquecento




INTERLOCUTORI

PROLOGO

ARGUMENTO

FESSENIO servo

POLINICO precettore

LIDIO adulescentulo

CALANDRO

SAMIA serva

RUFFO negromante

SANTILLA

FANNIO servo

FULVIA moglie di Calandro

MERETRICE

FACCHINO

SBIRRI di dogana.




PROLOGO [DEL CASTIGLIONE]


Voi sarete oggi spettatori d'una nova commedia intitulata Calandria: in prosa, non in versi; moderna, non antiqua; vulgare, non latina. Calandria detta è da Calandro el quale voi troverrete sí sciocco che forse difficil vi fia di credere che Natura omo sí sciocco creasse giá mai. Ma, se viste o udite avete le cose di molti simili, e precipue quelle di Martino da Amelia (el quale crede la stella Diana essere suo' moglie, lui essere lo Amen, diventare donna, Dio, pesce ed arbore a posta sua), maraviglia non vi fia che Calandro creda e faccia le sciocchezze che vedrete. Rappresentandovi la commedia cose familiarmente fatte e dette, non parse allo autore usare il verso; considerato che e' si parla in prosa, con parole sciolte e non ligate. Che antiqua non sia dispiacer non vi dee, se di sano gusto vi trovate: per ciò che le cose moderne e nove delettano sempre e piacciono piú che le antique e le vecchie; le quale, per longo uso, sogliano sapere di vieto. Non è latina: però che, dovendosi recitare ad infiniti, che tutti dotti non sono, lo autore, che piacervi sommamente cerca, ha voluto farla vulgare; a fine che, da ognuno intesa, parimenti a ciascuno diletti. Oltre che, la lingua che Dio e Natura ci ha data non deve, appresso di noi, essere di manco estimazione né di minor grazia che la latina, la greca e la ebraica: alle quali la nostra non saria forse punto inferiore se la esaltassimo, la osservassimo, la polissimo con quella diligente cura che li greci e altri ferno la loro. Bene è di sé inimico chi l'altrui lingua stima piú che la sua propria. So io bene che la mia mi è sí cara che non la darei per quante lingue oggi si trovano. E cosí credo intervenga a voi. Però grato esser vi deve sentire la commedia nella lingua vostra. Avevo errato: nella nostra, non nella vostra, udirete la commedia; ché a parlare aviamo noi, voi a tacere. De' quali se sia chi dirá lo autore essere gran ladro di Plauto, lassiamo stare che a Plauto staria molto bene lo essere rubato per tenere, il moccicone, le cose sua senza una chiave, senza una custodia al mondo; ma lo autore giura, alla croce di Dio, che non gli ha furato questo (facendo uno scoppio con la mano); e vuole stare a paragone. E, che ciò sia vero, dice che si cerchi quanto ha Plauto e troverrassi che niente gli manca di quello che aver suole. E, se cosí è, a Plauto non è suto rubbato nulla del suo. Però non sia chi per ladro imputi lo autore. E, se pure alcuno ostinato ciò ardisse, sia pregato almeno di non vituperarlo accusandolo al bargello; ma vada a dirlo secretamente nell'orecchio a Plauto. Ma ecco qua chi vi porta lo Argumento. Preparatevi a pigliarlo bene, aprendo ben ciascuno il buco de l'orecchio.




PROLOGO [DEL BIBBIENA]


Oh che tranquillo sonno e che piacevol sogno m'ha rotto ser Giuliano con quella suo' voce da camera, che gli venga il canchero! Se mi donassi il miglior poder ch'egli abbi, non mi ristorerebbe del piacere che m'ha tolto svegliandomi. Io dormiva qua come un tasso e sognava d'aver trovato l'anel d'Angelica; quell'anel, dico, che chi lo portava in bocca non poteva esser veduto da persona. Pensate or voi, donne mie, se io era allegro di sí fatta ventura! Io faceva pensiero di andarmene invisibile alle casse di certi pigoloni avaracci, a' quali non si trarrebbe un grosso delle mani con le tanaglie di Nicodemo, e quivi volevo fare un ripulisti di tal sorte che non rimanessi loro un marcio quatrino. In ogni modo egli è un peccato che cotali miseracci abbin del fiato, poi che, per non spendere un soldo, tengano a patti quasi di lasciarsi morir di fame. Alle spese loro volevo io ragunar tanti denari che io comprassi due bonissime porzioni: chi sarebbe poi stato meglio di me, dite il vero? Pensava poi di vedere tutte le donne di Firenze quando si levano: e forse che i' non arei potuto farlo, potendo andar per tutto senza esser veduto! – So – diceva io – che non gioverá far meco lo schizzinoso di non voler esser vedute, perché le giugnerò in lato che non potranno nascondermisi! – E giá mi pareva essere a' ferri, quando, cosí dormendo, mi ricordai che stasera si faceva una veglia. – Orsú – diss'io – in anzi che i' faccia altro, vo' dare una scorribandola per queste case e vedere quel che fanno quelle donne che vi sono invitate. – Fatto il pensiero, mi pongo l'anello in bocca; e, parendomi di non poter esser veduto, entro in una casa. E truovo che 'l marito faceva un grande afrettare la moglie che andassi via presto, e non le dava tanto agio che la poveretta si potessi a pena assettare. Maraviglia'mi di tanta fretta che colui le faceva; e, considerando molto bene a ogni cosa, m'aveggo che il galantuomo aveva fatto assegnamento adosso alla fante, e però gli pareva mill'anni di levarsi la moglie dinanzi. Non vi dico se mi gonfiò lo stommaco vedendo che colui faceva sí poca stima della moglie giovane e bella, per andar dietro a una fante: e, s'io avessi potuto, l'arei confinato in una cucina a succiar broda e a leccare strofinacci, poi che n'è sí giotto; e starebbe, la state, molto bene a questi tali. Basta che poi si scusano con dire: «Ogni cosa è me' che moglie». Mi partii di quivi, mezzo sdegnato con lui; e, giunto in un'altra casa, truovo la moglie e il marito che facevano un gran contendere insieme. Ella piangeva, e voleva pur venir alla veglia, e diceva al marito: – Se voi non volevi che io v'andassi, bisognava dirlo prima e non mi lassar promettere. Voi volete pure che ognuno sappia chi voi sète, che maladetto sia il punto e l'ora che io mi maritai! cosí poteva io farmi monaca, se non ho mai a avere un piacere come l'altre. – Ben, be' – rispondeva il marito geloso, – veglie, eh? veglie, eh? Se tu volessi bene al tuo marito, tu non ti cureresti d'andarvi. Tu non sai bene quel che si fa a queste veglie. Statti, statti in casa meco; e sará molto meglio che andar notticon tutta notte. – Deh sí, lasciatemi andare – soggiugneva ella: – alle veglie si va una volta l'anno, e vaccene tante de l'altre: avete voi paura ch'io non sie mangiata? – Che belle parole! che vuol dir mangiata, cervellinuzza? – disse il geloso. – Oh! sta' costí, e non mi romper piú la testa. – Io messi mano a un legno, con animo di dargli venticinque bastonate per fargli uscire la gelosia del capo: ma pensai poi che fusse meglio lasciarne far la vendetta a lei, che, se sará savia, com'io credo, lo fará esser geloso di qualcosa. E forse che ci mancano e' giovani sfaccendati, in questa cittá! E' gli fará il dovere al dappochello: gli è ben vero che la gelosia non vien da altro che da dappocaggine. Anda'mene in un altro luogo: e trovai che la padrona si aveva messo il brigante in casa e, per non venire alla veglia, dava ad intendere al marito che un suo bambino, o bambina che si fusse, si sentiva male; e, per farlo piangere, non restava di pizzicarlo, talché 'l poverino né con lusinghe né con altro si rachetava. Onde ella diceva: – Vedi, marito mio, io non voglio lasciare questo povero bambino a guardia di fante e non son per venire alla veglia altrimenti. Ma facciam cosí: vavvi tu, acciò che non paia che noi faccián poca stima di chi ci ha invitati. – Il buono uomo, per non sentir quel pianto tutta notte, e non sapendo come potessi giovare al figliuolo, si uscí di casa e dette campo franco alla moglie, piú aveduta e piú savia di lui. Parvemi d'entrar poi in una altra casa e trovare la padrona che si faceva affibbiar dalla fante e le diceva: – Uh, sciocca, dappocuza! ancor non sai tu affibbiare una vesta? Comínciati di sotto, in malora! – A cui la fante rispondeva: – E che noia dá, che importa cominciarsi di sotto o di sopra? Quando io affibbiava quell'altra mia padrona, io cominciava pur sempre di sopra. – Sai tu perché? – rispondeva la padrona: – perché ella ha troppe le puppe grosse, e cominciavasi di sopra per tirarsele in giú a poco a poco acciò non apparissino sí ritte. Ma io, perché son magra ed ho il petto piccolo, bisogna, se io non voglio parer fatta colla pialla, che mi cominci affibbiar di sotto, acciò che io abbia un poco di apparienzia e non paia una spigolista; ben sai! – Oh quanto mi risi di questa astuzia da donne! Trova'ne, doppo questa, un'altra, piú vana che una zucca secca; la quale si stava in una sua anticameretta dintorno allo specchio, con un paio di mollettine in mano, e davasi una riveduta solenne alle ciglia; e, poi che si fu pelata e spelata a suo modo, messe mano a un fiaschetto pieno d'una certa aqua sbiancata, che pareva latte marcio, e con essa si lavò molto bene il viso e la gola per infino al petto. Doppo, presa la pezzetta di levante, si dipinse un viso che pareva una mascara modanese: e, poi che si fu lisciata a suo modo, cominciò a mettersi tanti fiori in seno e agli urecchi che la pareva un maggio; e, guardandosi nello specchio e parendole che non campeggiassino a suo modo, forse dieci volte li levò e ripose, tanto che mi venne a noia e me ne partii senza voler vederne la fine. Entrai in piú di diece altre case: e sempre sempre trovai donne che si lisciavano; e alcuna ne viddi che era aiutata dal marito, molto piú vano di lei. – Diacin ne vadia, con tanto lisciarsi! – diceva io fra me medesimo: – può egli essere che queste meschine non si accorghino che, per voler parer piú belle, si fanno maschere e si guastan la vita ed invechiano dieci anni inanzi al tempo e diventano grinze e isdentate o vero co' denti sí sudici e lordi che sarebbe manco schifo a baciar loro… presso che io non dissi qualche mala parola… che baciar loro la bocca? Quante ne è qui che, cariche di panni e del mal che Dio die loro, stanno intirizzate come statue e non si possan muovere, scoppiano di caldo e di affanno, per parer belle! E pensan forse, queste tali, esser tenute piú belle che l'altre? Le s'ingannano, perché belle son tenute quelle che né poco né molto le lor persone procurano. – Mi deliberai di rompere quanti fiaschetti di liscio e quante ampolle io trovava: e, stendendo la mano cosí nel sonno, credendo pigliare un fiaschetto, presi un orinale, pien d'altro che d'aqua d'angioli, per trarlo nel muro; e a punto lo batteva nel capo a ser Giuliano che m'era a canto per svegliarmi; e vi so dire che io l'arei profumato di buona sorte, se a punto in su quello egli non mi avessi svegliato, per impormi vi dicessi quello che si vergogna a dir lui. E questo è che certi sua amici gli avevan promesso di aver in ordine per questa sera una bella commedia; e lui, fidandosi di loro, non si è curato vederla o udirla, credendo che la commedia fussi, se non buona in tutta perfezione, almeno ragionevole: ma stamane, ch'egli l'ha udita provare, conosce che invero la non è degna di voi, e gli duole in sino al cuore che voi siate qui, parendoli d'avervi fatto perdere l'aconciatura. Onde vi prega vi degnate averlo per iscusato, promettendovi che, la prima volta tornerete in casa sua, vi fará sentire una commedia d'un'altra sorte e piú bella e sanza comparazione piú piacevole. Ma mi pare vedere che gli ará una bazza, perché questi gentiluomini sono tanto intenti a contemprare le bellezze di voi altre donne che poco o niente della commedia si cureranno. Di grazia, nobilissime donne, se pensate di far cosa grata a lui e a chi l'ha a recitare, mostratevi loro piú del solito favorevoli e benigne, acciò che la commedia quel manco gl'infastidisca. Che dite? faretelo? Non bisogna storcere il viso: chi di voi non vuol far questo, o li paressi stare a disagio, se ne può ire a suo' posta, ché l'uscio è aperto. Fate largo, lá! E chi resterá udirá la commedia che costoro hanno ordinato di fare, quale ella si sia, che forse vi fará ridere per la sua goffezza. Poco stará non so chi di loro a uscir fuora; e voi, donne, di grazia, spalancate bene il buco de l'urecchio vostro a ciò non ne perdiate una gocciola.




ARGUMENTO


Demetrio, cittadin di Modon, ebbe uno figliolo maschio chiamato Lidio e una femmina chiamata Santilla, amendua d'un parto nati, tanto di forma e di presenzia simili che, dove il vestire la differenzia non facea, non era chi l'uno dall'altro cognoscere potessi. Il che credere dovete: perché, lassando molti esempli che adducere vi potremmo, bastar vi deve quel degli due di sangue e di virtú nobilissimi frategli romani Antonio e Valerio Porcari; sí consimili che, ogn'ora, da tutta Roma è preso l'uno per l'altro. Alli dua putti ritorno a' quali, giá di anni sei, manca il padre. Li turchi prendeno e ardeno Modone uccidendo quanti trovano per la cittá. La nutrice loro e Fannio servo, per salvare Santilla, da maschio la vesteno e Lidio la chiamano, stimando il fratello da' turchi essere stato morto.

Di Modon parteno. Tra via, son presi e prigioni in Costantinopoli condotti. Perillo mercante fiorentino tutti a tre li riscatta, a Roma seco gli mena, in casa sua li tiene: ove dimorando lungo tempo, ottimamente lo abito, i costumi e 'l parlar pigliano. E, questo giorno, Perillo vuole dare la sua figliuola per moglie alla detta Santilla, da ciascuno Lidio chiamata e per maschio sempre creduta. Lidio, il maschio, con Fessenio servo da Modon esce salvo; in Toscana e in Italia si conduce; ivi il vestire, il vivere e la lingua apprende. Essendo di anni diciassette in diciotto, a Roma viene, di Fulvia se innamora e, parimente da lei amato, piú volte, vestito da donna, seco a sollazzar si va. Dopo molti scambiamenti, Lidio e Santilla lietamente si riconoscano. Guardate or voi, aprendo ben l'occhio, a non scambiar l'un dall'altro. Però che io ve avvertisco che amendua d'una statura e d'una presenzia sono, amendua si chiamano Lidio, amendua ad un modo vestono, parlano, ridano, amendua sono oggi in Roma ed amendua or or qui comparir li vedrete. Né crediate però che, per negromanzia, sí presto da Roma venghino qui; per ciò che la terra che vedete qui è Roma. La quale giá esser soleva sí ampia, sí spaziosa, sí grande che, trionfando, molte cittá e paesi e fiumi largamente in se stessa riceveva; ed ora è sí piccola diventata che, come vedete, agiatamente cape nella cittá vostra. Cosí va il mondo.




ATTO I





SCENA I


FESSENIO solo.

Bene è vero che l'uomo mai un disegno non fa che la Fortuna un altro non ne faccia. Ecco, allor che noi pensavamo a Bologna quietarci, intese Lidio mio padrone Santilla sua sorella esser viva ed in Italia pervenuta. Onde, in un tratto, resuscitò in lui quello amore che gli portava, maggior che mai fratello a sorella portassi: perché, amendue de un parto nati, di volto, di persona, di parlare, di modi tanto simili gli fe' Natura che a Modon, talor vestendosi Lidio da fanciulla e Santilla da maschio, non pur li forestieri, ma non essa madre, non la propria nutrice sapea discernere qual fusse Lidio o qual fusse Santilla; e come gli dèi non gli ariano potuti fare piú simili, cosí parimente l'uno amava l'altro piú che se stesso. Però Lidio, che morta si pensava essere sua sorella, inteso lei essere salva, si messe ad investigare di lei. Ed a Roma pervenuti, sono giá quattro mesi, cercando sua sorella, trovò Fulvia romana. Della quale fieramente accesosi, con Calandro suo marito misse me per servo per condurre a fine lo amoroso suo disio: come subito condussi con satisfazione di lei; perché ella, di lui grandemente ardendo, di bel mezzo giorno, ha piú volte fatto andare a sollazzarsi seco Lidio vestito da donna Santilla chiamandosi. Ma pure esso, temendo che tal fiamma non si scoprisse, si è, da molti giorni in qua, mostro negligentissimo di lei fingendo di qua partire volersi. Laonde Fulvia è ora in passione e in furia tale che quiete alcuna non trova: e ora ricorre a maliastre, ad incantatrici, a negromanti che ricuperare le faccino lo amante suo come se perduto l'avesse; e ora me e quando Samia sua serva, conscia di tutto, manda a lui con preghi, con doni e con promessa di dare per moglie al suo figliuolo Santilla, se mai avviene che la si trovi. E tutto fa in maniera che, se 'l marito non avesse piú della pecora che de l'uomo, giá accorto se ne saria. E tutta la ruina caderia sopra me: per che mi bisogna bene sapere schermire. Io solo fo la impossibilitá. Nessuno potette mai servire a due ed io servo a tre: al marito, alla moglie e al proprio mio padrone; in modo che io non ho mai uno riposo al mondo. Né per ciò mi dolgo, perché chi in questo mondo sempre si sta ha il viver morto. Se vero è che un bon servo non deve mai avere ozio, io pur tanto non ne ho che possa pure stuzzicarmi li orecchi. E, se niente mi mancava, un'altra amorosa pratica mi è pervenuta alle mani, la qual mille anni parmi di conferire con Lidio che di qua viene. Ed, oh! oh! oh!, seco è quel Momo di Polinico suo precettore. Apparso è il delfino; tempesta fia. Voglio un poco starmi cosí da parte e udire quel che ragionano.




SCENA II


POLINICO precettore, LIDIO padrone, FESSENIO servo.

POLINICO. Per certo, non mi saria mai caduto ne l'animo, Lidio, che tu a questo venissi; che, drieto andando a vani innamoramenti, sprezzatore de ogni virtú sei diventato. Ma di tutto do causa a quella bona creatura di Fessenio.

FESSENIO. Per lo corpo…

LIDIO. Non dir cosí, Polinico.

POLINICO. Eh! Lidio, tutto so meglio che tu e che quel ribaldo del tuo servo.

FESSENIO. A dispetto di… che io li…

POLINICO. L'omo prudente pensa sempre quello li pò venire in contrario.

FESSENIO. Eccoci su per le pedagogarie.

POLINICO. Come questo vostro amore fia piú noto, oltre che in gran pericolo starai, tu sarai da tutti tenuto una bestia.

FESSENIO. Pedagogo poltrone!

POLINICO. Perché, chi non dileggia e non odia li vani e li leggeri? Come diventato sei tu che, forestiero, ti sei posto ad amare. E chi? Una delle piú nobil donne di questa cittá. Fuggi, dico, e' pericoli di questo amore.

LIDIO. Polinico, io son giovane; e la giovinezza è tutta sottoposta ad Amore. Le gravi cose si convengano a' piú maturi. Io non posso volere se non quello che Amor vuole: e mi sforza ad amare questa nobil donna piú che me stesso. Il che, quando mai si risapessi, credo che io ne sarò da molti piú reputato; per ciò che come in una donna è grandissimo senno il guardarsi da l'amore di maggior omo che ella non è, cosí è gran valore nelli omini di amare donne di piú alto lignaggio che essi non sono.

FESSENIO. Oh bella risposta!

POLINICO. Questi son termini insegnatili da quel tristo di Fessenio per metterlo sú.

FESSENIO. Tristo se' tu.

POLINICO. Mi maravigliavo che tu non volassi a turbar l'opere bone.

FESSENIO. Adonque io non turberò le tua.

POLINICO. Nulla è peggio che vedere la vita de' savi dependere dal parlare de' matti.

FESSENIO. Piú saviamente l'ho consigliato io sempre che tu fatto non hai.

POLINICO. Non puole essere superiore di consigli chi è inferiore di costumi. Non te ho prima cognosciuto, Fessenio, perché non t'arei tanto laudato a Lidio.

FESSENIO. Avevo forse bisogno di tuo favore io, ah?

POLINICO. Conosco ora essere ben vero che, in laudare altrui, spesso resta l'omo ingannato; in biasmarlo, non mai.

FESSENIO. Tu stesso mostri la vanitá tua poi che laudavi chi non conoscevi. So io bene che, in parlare di te, non mi sono ingannato mai.

POLINICO. Donque hai tu detto mal di me?

FESSENIO. Tu stesso il di'.

POLINICO. Pazienzia! Non intendo quistionar teco, ché saria uno gridare co' tuoni.

FESSENIO. El fai perché non hai ragion meco.

POLINICO. El fo per non usare altro che parole.

FESSENIO. E che potresti tu mai farmi in cent'anni?

POLINICO. El vederesti. E cosí, cosí…

FESSENIO. Non stuzzicar, quando fumma el naso de l'orso.

POLINICO. Deh! deh! Orsú! Non voglio con un servo…

LIDIO. Orsú! Fessenio, non piú.

FESSENIO. Non minacciare: ché, benché io sia vil servo, anco la mosca ha la sua collora; e non è sí picciol pelo che non abbi l'ombra sua, intendi?

LIDIO. Taci, Fessenio.

POLINICO. Lassami seguire con Lidio, se ti piace.

FESSENIO. E dá del buon per la pace.

POLINICO. Ascolta, Lidio. Sappi che Dio ci ha fatto due orecchi per udire assai.

FESSENIO. Ed una sol bocca per parlar poco.

POLINICO. Non parlo teco. Ogni mal fresco agevolmente si leva; ma poi, invecchiato, non mai. Levati, dico, da questo tuo amore.

LIDIO. Perché?

POLINICO. Non ve arai mai se non tormenti.

LIDIO. Perché?

POLINICO. Oimè! Non sai tu che i compagni d'amore sono ira, odii, inimicizie, discordie, ruine, povertá, suspezione, inquietudine, morbi perniziosi nelli animi de' mortali? Fuggi amor; fuggi.

LIDIO. Oimè! Polinico, non posso.

POLINICO. Perché?

FESSENIO. Per mal che Dio ti dia.

LIDIO. Alla potenzia sua ogni cosa è suggetta. E non è maggior dolcezza che acquistare quel che si desidera in amore, senza il quale non è cosa alcuna perfetta né virtuosa né gentile.

FESSENIO. Non si può dir meglio.

POLINICO. Non è maggior vizio in un servo che l'adulazione. E tu lui ascolti? Lidio mio, attendi a me.

FESSENIO. Sí che gli è delicata robba!

POLINICO. Amore è simile al foco che, postovi sopra zolfo o altra trista cosa, amorba l'omo.

LIDIO. E, postovi incenso, aloe ed ambra, fa pure odore da resuscitare morti.

FESSENIO. Ah! ah! Col laccio che fece resta preso Polinico.

POLINICO. Ritorna, Lidio, alle cose laudabili.

FESSENIO. Laudabile è accomodarsi al tempo.

POLINICO. Laudabile è quel che è buono ed onesto. Te annunzio ci capiterai male.

FESSENIO. El profeta ha parlato.

POLINICO. Ricordoti che l'animo virtuoso non si muove per cupiditá.

FESSENIO. Né si leva per paura.

POLINICO. Tu pur male fai. E sai che gli è grande arroganzia sprezzare i consigli de' savi.

FESSENIO. Mentre che savio te intituli, matto ti battezzi perché tu pur sai che non è maggior pazzia che tentare quello che non può ottenersi.

POLINICO. Egli è meglio perdere dicendo il vero che vincere con le bugie.

FESSENIO. El vero dico io come tu. Ma non son giá un messer tutto-biasma come sei tu; che, per quattro cuius che tu hai, sí savio esser ti pare che credi che ogni altro, da te in fuora, sia una bestia. E non sei però Salamone; né consideri che una cosa al vecchio, una al giovane, una ne' pericoli e una nel riposo si conviene. Tu, che vecchio sei, la vita tieni che a lui ricordi. Lidio, che giovane è, lassa che le cose faccia da giovane. E tu al tempo ed a quel che piace a Lidio te accomoda.

POLINICO. Egli è ben vero che un padrone quanti ha piú servi tanti piú ha inimici. Costui ti conduce alle forche. E, quando mai altro mal non te ne avvenga, ne arai sempre tu rimordimento ne l'animo perché e' non è supplizio piú grave che la conscienzia delli errori commessi. E però lassa costei, Lidio.

LIDIO. Tanto lassar posso io costei quanto il corpo l'ombra.

POLINICO. Anzi, meglio faresti tu ad odiarla che a lassarla.

FESSENIO. Oh! oh! oh! Non puole il vitello e vuol che porti el bue!

POLINICO. Ella lasserá ben presto te, come da altri fia ricercata; ché le femine sono mutabili.

LIDIO. Oh! oh! oh! Non sono tutte d'una fatta.

POLINICO. Non son giá d'una apparienzia; ma sono ben tutte d'una natura.

LIDIO. Gran fallacia pigli.

POLINICO. O Lidio, leva el lume, che i volti veder non si possino, non è una differenzia al mondo da l'una all'altra. E sappi che a donna non si può credere, etiam poi che è morta.

FESSENIO. Costui fa meglio che or or non li ricordava.

POLINICO. Che?

FESSENIO. Te accommodi benissimo al tempo.

POLINICO. Anzi, dico bene il vero a Lidio.

FESSENIO. Piú sú sta mona luna!

POLINICO. In fine, che vuo' tu inferire?

FESSENIO. Voglio inferire che tu ti accommodi al viver d'oggi.

POLINICO. In che modo?

FESSENIO. Allo essere inimico delle donne, come è quasi ognuno in questa corte. E però ne dici male. E iniquamente fai.

LIDIO. Dice il vero Fessenio, perché laudar non si può quel che tu hai detto di loro: per ciò che sono quanto refrigerio e quanto bene ha il mondo e sanza le quali noi siamo disutili, inetti, duri e simili alle bestie.

FESSENIO. Che bisogna dir tanto? Non sappiam noi che le donne sono sí degne che oggi non è alcuno che non le vadi imitando e che volentieri, con l'animo e col corpo, femina non diventi?

POLINICO. Altra risposta non voglio darvi.

FESSENIO. Altro in contrario dir non sai.

POLINICO. Ricordo a te, Lidio, che gli è sempre da tôr via l'occasione del male e di nuovo ti conforto che tu voglia, per tuo bene, levarti da questi vani innamoramenti.

LIDIO. Polinico, e' non è cosa al mondo che manco riceva il consiglio o la operazione in contrario che lo amore; la cui natura è tale che piú tosto per se stesso consumar si può che per gli altrui ricordi tôrsi via. E però, se pensi levarmi dallo amore di costei, tu cerchi abracciar l'ombra e pigliare il vento con le reti.

POLINICO. E questo ben mi pesa: perché, dove esser solevi piú trattabile che cera, or piú ruvido mi pari che la piú alta rovere che si trovi. E sai tu come ell'è? Io ne lasserò il pensiero a te. E sappi che tu ci capiterai male.

LIDIO. Io nol credo. E se pur ciò fia, non m'hai tu nelle tue lezioni mostro che è gran laude morire in amore e che bel fin fa chi bene amando more?

POLINICO. Orsú! Fa' pure a tuo modo e di questa bestia qui. Presto presto potresti cognoscere con tuo danno li effetti d'amore.

FESSENIO. Fermati, o Polinico. Sai tu che effetti fa amore?

POLINICO. Che? bestia!

FESSENIO. Quelli del tartufo, che a' giovani fa rizzar la ventura e a' vecchi tirar coregge.

LIDIO. Ah! ah! ah!

POLINICO. Eh! Lidio, tu te ne ridi e sprezzi le parole mie? Piú non te ne parlo; e di te a te lasso il pensiero; e me ne vo.

FESSENIO. Col mal anno. Hai tu visto come e' finge il buono? Come se noi non cognoscessimo questo ipocrito poltrone! che ci ha tutti turbati in modo che io né narrare né tu ascoltar potremo certa bella cosa di Calandro.

LIDIO. Di', di'; ché con questa dolcezza leverem l'amaritudine che ci ha lassata Polinico.




SCENA III


LIDIO, FESSENIO servo.

LIDIO. Or parla.

FESSENIO. Calandro, marito di Fulvia tua amorosa e padrone mio posticcio, che castrone è e tu becco fai, mentre che tu, li dí passati, da donna vestito, Santilla chiamatoti, andato da Fulvia e tornato sei, credendo che tu donna sia, si è forte di te invaghito e pregatomi che io faccia sí che egli ottenga questa sua amorosa: la qual sei tu. Io ho finto averci fatta grande opera; gli ho data speranza di condurla, ancor oggi, alle voglie sue.

LIDIO. Questa è ben cosa da ridere. Ah! ah! ah! Ed or mi ricordo che, l'altro dí, tornando io da Fulvia in abito di donna, mi venne drieto un pezzo; ma non pensai che fusse per innamoramento. Si vuol mandarla innanzi.

FESSENIO. Ti servirò bene: lassa fare a me. Gli mostrerò di novo aver fatti miraculi per lui; e sta' sicuro, Lidio, che egli piú crederrá a me che io non dirò a lui. Gli do spesso ad intendere le piú scempie cose del mondo per ciò che gli è il piú sufficiente lavaceci che tu vedessi mai. Potrei mille sua castronarie raccontarti; ma, acciò che io non vada ogni particularitá narrandoti, egli ha in sé sí profonde sciocchezze che, se una sola di quelle fusse in Salamone, in Aristotele o in Seneca, averebben forza di guastare ogni lor senno, ogni lor sapienzia. E quello che sommamente mi fa ridere delli fatti suoi è che gli pare essere sí bello e sí piacevole che e' s'avisa che quante lo vedeno subito se innamorino di lui, come se altro piú bel fante di lui non si trovasse in questa terra. In fine, come il vulgo usa dire, se mangiasse fieno, sarebbe un bue; perché poco meglio è che Martino da Amelia o Giovan Manente. Onde facil ci fia, in questo suo amorazzo, condurlo a quel che noi piú vorremo.

LIDIO. Ah! ah! ah! Io sono per morir delle risa. Ma dimmi: credendo esso che io sia femina, e maschio essendo, quando esso fia da me, come anderá la cosa?

FESSENIO. Lassa pur questa cura a me, ché tutto ben si condurrá. Ma oh! oh! oh! Vedilo lá. Va' via, ché teco non mi veda.




SCENA IV


CALANDRO, FESSENIO servo.

CALANDRO. Fessenio!

FESSENIO. Chi mi chiama? Oh padrone!

CALANDRO. Or be', dimmi: che è di Santilla mia?

FESSENIO. Di' tu quel che è di Santilla?

CALANDRO. Sí.

FESSENIO. Non lo so bene. Pur io credo che di Santilla sia quella veste, la camicia che l'ha indosso, el grembiule, i guanti e le pianelle ancora.

CALANDRO. Che pianelle? che guanti? Imbriaco! Ti domandai, non di quello che è suo, ma come la stava.

FESSENIO. Ah! ah! ah! Come la stava vuoi saper tu?

CALANDRO. Messer sí.

FESSENIO. Quando poco fa la vidi, ella stava … aspetta! a sedere con la mano al volto; e, parlando io di te, intenta ascoltandomi, teneva gli occhi e la bocca aperta, con un poco di quella sua linguetta fuora, cosí.

CALANDRO. Tu m'hai risposto tanto a proposito quanto voglio. Ma lassiamo ire. Donque l'ascolta volentieri, eh?

FESSENIO. Come «ascolta»? Io l'ho giá acconcia in modo che fra poche ore tu arai lo attento tuo. Vuoi altro?

CALANDRO. Fessenio mio, buon per te.

FESSENIO. Cosí spero.

CALANDRO. Certo. Fessenio, aiutami; ch'io sto male.

FESSENIO. Oimè, padrone! Hai la febbre? Mostra.

CALANDRO. No. Oh! oh! Che febbre? Bufalo! Dico che Santilla m'ha concio male.

FESSENIO. T'ha battuto?

CALANDRO. Oh! oh! oh! Tu se' grosso! Dico ch'ella m'ha inamorato forte.

FESSENIO. Be', presto sarai da lei.

CALANDRO. Andiamo dunque da lei.

FESSENIO. Ci sono ancora di mali passi.

CALANDRO. Non ci perder tempo.

FESSENIO. Non dormirò.

CALANDRO. Fallo.

FESSENIO. El vedrai: ché or ora sarò qui con la risposta. Addio. Guarda lo gentile innamorato! Bel caso! Ah! ah! ah! D'un medesimo amante son morti la moglie e il marito. Oh! oh! oh! Vedi Samia serva di Fulvia che esce di casa. Alterata parmi; trama c'è. Ed essa sa il tutto. Da lei saperrò quel che in casa si fa.




SCENA V


FESSENIO servo, SAMIA serva.

FESSENIO. Samia! o Samia! Aspetta, Samia.

SAMIA. Oh! oh! Fessenio!

FESSENIO. Che si fa in casa?

SAMIA. A fé, non bene per la padrona.

FESSENIO. Che c'è?

SAMIA. La sta fresca.

FESSENIO. Che ha?

SAMIA. Non mel far dire.

FESSENIO. Che?

SAMIA. Troppa…

FESSENIO. Troppa che?

SAMIA. … rabbia di…

FESSENIO. Rabbia di che?

SAMIA. … trastullarsi con Lidio suo. Ha' lo inteso mò?

FESSENIO. Oh! Questo sapevo io come tu.

SAMIA. Tu non sai giá un'altra cosa.

FESSENIO. Che?

SAMIA. Che la mi manda a uno che fará fare a Lidio ciò che la vuole.

FESSENIO. In che modo?

SAMIA. Per via di canti.

FESSENIO. Di canti?

SAMIA. Messer sí.

FESSENIO. E chi sará questo musico?

SAMIA. Che vuoi tu fare di musico? Dico che vo a uno che lo fará amare, se crepasse.

FESSENIO. Chi è costui?

SAMIA. Ruffo negromante, che fa ciò che vuole.

FESSENIO. Come cosí?

SAMIA. Ha uno spirito favellario.

FESSENIO. Familiare, vuoi dir tu.

SAMIA. Non so ben dir queste parole. Basta che ben saprò dirgli che venga a madonna. Fatti con Dio. Vedi, olá! non ne parlare.

FESSENIO. Non dubitare. Addio.




SCENA VI


SAMIA serva, RUFFO negromante.

SAMIA. Egli è ancor sí buon'ora che Ruffo non sará ancor tornato a desinare. Meglio è guardare se in piazza fusse. Ed oh! oh! oh! ventura! Vedilo che va in lá. O Ruffo! o Ruffo! Non odi, Ruffo?

RUFFO. Io pur mi volto né vedo chi mi chiama.

SAMIA. Aspetta!

RUFFO. Chi è costei?

SAMIA. M'hai fatta tutta sudare.

RUFFO. Be', che vuoi?

SAMIA. La padrona mia ti prega che or ora tu vadi da lei.

RUFFO. Chi è la padrona tua?

SAMIA. Fulvia.

RUFFO. Donna di Calandro?

SAMIA. Quella, sí.

RUFFO. Che vuol da me?

SAMIA. Ella tel dirá.

RUFFO. Non sta lá su la piazza?

SAMIA. Ci son due passi. Andianne.

RUFFO. Vattene innanzi ed io drieto a te ne vengo. Sarebbe mai costei nel numero dell'altre scempie a credere che io sia negromante e abbia quello spirito che molte sciocche dicano? Non posso errare ad intendere quel che la vuole. Ed in casa sua me n'entro prima che qui arrivi colui che in qua viene.




SCENA VII


FESSENIO servo, CALANDRO.

FESSENIO. Or vedo ben che ancor li dèi hanno, come li mortali, del buffone. Ecco, Amore, che suole inviscare solo i cori gentili, s'è in Calandro pecora posto, che da lui non si parte; che ben mostra Cupido aver poca faccenda poi che entra in sí egregio babuasso. Ma il fa perché costui sia tra gli amanti come l'asino tra le scimie. E forse che non l'ha messo in bone mane? Ma la piuma è cascata nella pania.





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